Intitolata “Il mio viaggio nella SLA”, e affiancata da un documentario, l’opera spiega i principali problemi che affliggono i malati, a partire dalle difficoltà nella comunicazione
Dalla Sardegna giunge la notizia dell’applicazione della tecnica CRISPR-Cas9 per eliminare il gene retrovirale HERV-Kenv, che sembra essere implicato nei processi neurodegenerativi tipici della sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Un gruppo di studio tutto sardo ha infatti pubblicato sulla rivista Viruses un articolo che potrebbe cambiare la prospettiva da cui viene vista questa devastante e – per ora – incurabile malattia e, nel contempo, un ex dirigente scolastico di Oristano ha pubblicato un libro molto intenso che esplora e descrive la condizione dei malati di SLA in Italia.
l di fuori delle mura dei laboratori la situazione dei pazienti merita attenta considerazione: Antonio Pinna è un giornalista pubblicista laureatosi in Scienze e Tecniche Psicologiche che ha scritto e pubblicato “Il mio viaggio nella SLA” (CUEC editrice), un libro nel quale affronta alcuni dei principali problemi che affliggono i malati, incominciando dalla difficoltà a ricevere la giusta assistenza, passando per quelle legate al testamento biologico e affrontando, infine, i limiti – ma anche le nuove potenzialità – della comunicazione, che per coloro che sono affetti da SLA è prioritaria.
Il valore assunto dalle nuove tecnologie si pesa in rapporto alla possibilità dei malati di SLA di entrare in relazione con il mondo esterno. “Insieme alla prognosi di una malattia incurabile e alla prospettiva dell’immobilità, la perdita della fonazione e l’impossibilità di comunicare normalmente rappresentano due dei traumi più importanti perché mettono in crisi l’identità stessa del malato”, spiega Pinna. “Questa limitazione impone l’uso esperto dei comunicatori vocali, che fanno prodigi ma non possono bilanciare lo squilibrio comunicativo con le persone sane. Nei pazienti, il ritmo della sequenza discorsiva è lento e impacciato, inadeguato rispetto alle normali conversazioni, con tutti gli svantaggi comunicativi che ne conseguono”.
Carlo Marongiu, uno dei malati intervistati da Pinna, racconta di riuscire a intervenire nelle conversazioni soltanto con un “sì” e con un “no” e solo quando interrogato, sottolineando quanto sia desolante notare che, ogni volta che gli riesca di esprimere la sua opinione, gli altri abbiano già dimenticato a cosa si riferisca. “Nel conversare con i malati di SLA, i tempi lenti imposti dalle loro menomazioni e dai vincoli imposti dalle possibilità d’uso sia della bassa che dell’alta tecnologia possono indurre il ricevente ad una risposta lenta e più riflessiva”, prosegue Pinna. “Purtroppo, solo i caregivers più attenti e sensibili sono consapevoli di queste situazioni comunicative”. Proprio il ruolo dei caregivers è un altro punto chiave del libro, perché essi possono aiutare i malati a non terminare i loro giorni nel silenzio, dando loro modo di vivere in maniera attiva e aiutandoli a trovare nella tecnologia un valido supporto per rimanere connessi al mondo.
Pinna ha incontrato molti malati, come Julius Neumann, laureato in Ingegneria biomedica negli Stati Uniti ed ex manager del settore delle telecomunicazioni, un uomo che crede nella ricerca e che si è dato molto da fare per favorire l’arrivo in Italia del metodo NurOwn, una sperimentazione clinica di Fase III della biotech israeliana BrainStorm Cell Therapeutics, che impiega cellule staminali riprogrammate per contrastare la malattia e che, purtroppo, per ora viene condotta solo in centri di ricerca americani. Un esempio calzante per parlare del ruolo dell’informazione medica e scientifica e della comunicazione con i pazienti. “Siamo la seconda nazione al mondo per pubblicazioni scientifiche sulla SLA, ma il livello di informazione sul tema della società e della politica è bassissimo”, prosegue Pinna. “È una delle ragioni dello scandalo “Stamina” che ha tenuto in ostaggio il Paese per dieci anni. Se i media concedono il megafono ai truffatori, viene premiata l’ignoranza inconsapevole e il pietismo mediatico. Medici e ricercatori non sempre hanno tempo e modo per fare divulgazione, ma abbiamo bravi giornalisti scientifici e pubblicazioni interessanti che devono essere valorizzate e presidiate dall’avvento delle false notizie. Detto questo, non bisogna ignorare il ruolo assunto dai social network nell’informazione medico-scientifica. Nel 2015, un sondaggio affermava che per il 70% dei cittadini la fonte di informazioni privilegiata rimane Facebook”. È pertanto di primaria importanza eseguire una saggia opera di presidio del web e dei social, a tutela dei malati: un esempio sicuramente positivo è quello del gruppo Facebook “Sla in men che non si dica”, giunto a tre anni di attività, con un solido profilo informativo, basato su un continuo scambio di opinioni e domande con i malati e produzione di risposte da parte degli esperti.
Ma la comunicazione si esplica a diversi livelli, come dimostrato dalla realizzazione, a partire dal libro, del documentario “SLA in men che non si dica”, girato insieme ad Antonello Carboni, documentarista con alle spalle una lunga esperienza costellata di importanti riconoscimenti anche internazionali. Introdotto da Giuseppe Punzoni, malato di Nuoro e autore del libretto “In men che non si dica”, che ne ha ispirato il titolo, il documentario riprende i temi del libro e li mette in evidenza, soffermandosi sulla sensibilità delle donne come caregivers e citando il ruolo delle associazioni a tutela dei diritti dei malati, costantemente impegnate nel sostegno alla ricerca biomedica: in quest’ottica si colloca proprio l’intervista al dott. Giuseppe Borghero, neurologo e componente del Comitato Medico Scientifico di Aisla, associazione fondata nel 1983 a Veruno, presso l’Istituto Medico Maugeri. Nel film, come nel libro, i protagonisti sono i malati che non si sono lasciati piegare dalla malattia e che, dall’ostacolo che si sono trovati a fronteggiare, hanno saputo trarre la forza per continuare a combattere.
“Le battaglia più importanti restano quelle per l’assistenza e la presa in carico globale del malato”, conclude Pinna. “I fondi sono insufficienti rispetto ai bisogni reali: sebbene l’Emilia Romagna sia una regione virtuosa che ha investito negli ultimi dieci anni più dell’intera nazione, attraverso il Fondo per la Non-autosufficienza, destinato a tutti malati di patologie neurodegenerative gravi, la Sardegna, che dodici anni fa era un modello nazionale, ora mostra qualche lacuna anche per la difficoltà dei Comuni a partecipare alle spese. Il Centro-Nord sta producendo risultati, ma regioni come la Sicilia, la Calabria e la Campania evidenziano gravi ritardi nella spesa. Le procedure sono in generale macchinose e rallentano gli aiuti. Inoltre, c’è il problema di rispettare i nuovi LEA anche per questi malati. L’assistenza territoriale e domiciliare integrata funzionano a macchia di leopardo nella fornitura di servizi e prestazioni, e la prospettiva dell’esodo massiccio di medici e infermieri nei prossimi anni è uno spettro che fa paura”. C’è ancora molto da fare. Ricerche come quella condotta presso l’Università di Sassari hanno bisogno di poter continuare sulla strada per l’identificazione di una cura, ma nel frattempo non bisogna trascurare la qualità di vita dei malati.
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Il ricavato della vendita del librò sarà devoluto alla ricerca.